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Lavorare, produrre, fatturare.


Parole che scandiscono le nostre vite frenetiche, tenute sotto scacco da un orologio che non ha più nulla di biologico.

La nostra società è basata sul consumo, quindi sulla produttività, che diventa IPERproduttività.

Vietato fermarsi, vietato rallentare, vietato anche accontentarsi, ma siamo sicuri che questo stile di vita sia corretto?

I ritmi forsennati a cui siamo sottoposti non aiutano nessuno, anzi danneggiano soprattutto le persone più fragili, quelle che per qualche ragione non riescono a stare al passo e vengono così lasciate indietro, considerate un peso.

È semplice cadere nel tranello dell'iperproduttività, sentirsi in colpa per non aver fatto abbastanza, avere l'ansia di non essere all'altezza.

Negli ultimi mesi questa piaga sociale è stata più che mai accentuata, anche in un frangente così complicato non era ammissibile lasciarsi andare: bisognava allenarsi, migliorarsi, iniziare un nuovo hobby, lavorare di più; mandare mail di notte e videochiamare la domenica era un atto dovuto.

Ci si è sentiti in diritto, quasi in dovere, di criticare chi era "inconcludente", ma forse si dovrebbe riflettere sulle ragioni profonde che portano a questi ragionamenti e pensare che il valore di un individuo non dipende da quanto "fa", ma da quanto "é".


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