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Alto, fragile

di Nicolò Carzaniga

Illustrazione di A. Kovawsky

In famiglia siamo tutti alti. Alti e magri.

Mia mamma una volta mi ha raccontato che papà, a causa della sua peculiare abitudine estiva di girare nudo per casa, si era chiuso l'uccello in un cassetto.

Proprio così. Perché da quell'altezza cascava giusto a fagiolo e, vedendone uno mezzo aperto in camera da letto, non è riuscito a resistere alla tentazione di un rapido colpo d'anca.

Lei era stata attirata dalle grida di dolore e, una volta ravvisato il fallo, aveva alternato riso isterico a un pronto intervento da crocerossina, cercando di salvaguardare l'integrità di quel pezzo che, tutto sommato, interessava anche a lei.

Io, che pure supero papà di qualche centimetro, mi muovo in maniera più decorosa, ma certe volte in questo sottotetto fa così caldo che è difficile resistere coperti da qualcosa più del proprio sudore. E allora la voglia nudista viene anche a me; tuttavia, memore dell'errore del mio vecchio, ho sempre desistito dal mettere ordine con mosse di quel tipo.

Sarà anche grazie al mio fisico che negli anni è sempre rimasto asciutto, incurante di quello che succedeva alla maggior parte dei miei coetanei che mettevano su pancette e maniglie dell'amore, che sono sempre il prescelto quando al lavoro c'è da puntare in alto.

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“Non ti preoccupare, sarà una cosetta facile facile” mi aveva stuzzicato Bernardo, basta scavalcare il cancello e poi praticamente sei già dentro!

Avevo abboccato ancora, ma non era stato così facile facile.

Non ho ancora capito bene cos'è andato storto. Forse una vespa nottambula ha ronzato addosso a Michele o forse la sirena di un allarme ha fatto fare uno scatto indietro a Bernardo: basta un nonnulla per far crollare quella sorta di piramide umana che ci siamo inventati quando non dobbiamo ripulire il solito appartamento sfigato al piano terra.

E allora i miei soci si sono dileguati in un attimo, mentre io sono rimasto bloccato qui.

Qui ad aspettare i soccorsi che, solo grazie ad un bengalese di passaggio, sono arrivati dopo mezzora. È stato gentile Amir, che nell'attesa mi ha riassunto la storia della sua vita: dal lavoro nei campi del suo paese all'arrivo in Italia a bordo di un barcone, passando prima dalla Turchia e poi dalle carceri libiche. Quando ha intravisto l'ambulanza è però dovuto scappare: “No permesso di soggiorno, scusa, ciao.”

E al suo posto ha lasciato una rosa rossa come portafortuna.

Io volevo solo ringraziarlo e stringergli la mano, ma da quassù non riesco a fare nemmeno questo, e allora mi sono limitato a un cenno del capo e a un sorriso.

Devo essere quasi divertente da vedere, ma non per il più giovane dei due medici che si è lasciato sfuggire un Oh, cazzo! quando mi ha visto infilzato negli spuntoni del cancello in ferro battuto di Villa Clerici.

Ora intorno a me si è radunato anche un piccolo capannello di curiosi, li sento confabulare ma non distinguo bene le parole. Spero che qualcuno mi tiri giù in fretta perché, sembra strano, non sento molto dolore ma ho solo tanta voglia di dormire.

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